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Corte di Cassazione italiana, Sez. VI Penale, N. 43646/2011, 22 giugno 2011

Abstract

Ricorso contro condanna per concorso in esercizio abusivo della professione medica. Circoncisione rituale del figlio minorenne dell’imputata, di origine nigeriana. Ignoranza della natura medica della circoncisione rituale, a causa della sua diffusione presso la cultura dell’agente.

Riferimenti normativi

Artt. 2, 25 Legge italiana n. 101/1989

Art. 50 codice penale italiano

Art. 5 codice penale italiano

Art. 348 codice penale italiano

Massima

1. La circoncisione rituale praticata dagli ebrei su un neonato deve – anche ai sensi degli artt. 2 e 25 della L. n. 101/1989 (attuativa dell’intesa del 1987 tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), che sanciscono il diritto di professare e praticare la religione ebraica – ritenersi non in contrasto con il nostro ordinamento, e ha una preminente valenza religiosa che sovrasta quella medica. Con l’effetto che mai il mohel (soggetto incaricato dal padre del neonato di eseguire la circoncisione presso le comunità ebraiche: di solito è un medico o comunque una persona specializzata nella pratica della circoncisione e dei relativi rituali) potrebbe incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione medica e la sua condotta, che oggettivamente integra il reato di lesione personale, se non determina una apprezzabile lesione permanente e non mostra segni di negligenza, imprudenza o imperizia è scriminata dal consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), prestato validamente ed efficacemente dai genitori del neonato per il compimento di un atto che rientra tra quelli di disposizione del proprio corpo consentiti dall’art. 5 c.c.

2. Laddove il significato della circoncisione non terapeutica sia riconducibile a motivazioni che esulano da esigenze religiose e identitarie e che affondano le loro radici soltanto in tradizioni culturali ed etniche, estranee alla cultura occidentale e non sempre compatibili, sul piano operativo, con la nostra legislazione, l’intervento stesso integra il delitto di cui all'art. 348 c.p., se praticato da soggetto non abilitato all'esercizio della professione medica, e ciò anche in considerazione della delicatezza della circoncisione, che interferisce comunque sull’integrità fisica della persona.

3. Deve escludersi la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo (nel caso di specie, di concorrere nel reato di esercizio abusivo della professione medica) anche quando vi sia un errore inevitabile su una norma extrapenale integratrice della fattispecie penale, in quanto la prima diventa anch’essa penale ai fini della disciplina dell’ignorantia legis, con l’effetto che l’errore, se scusabile, dev’essere apprezzato come fattore di esclusione della colpevolezza.
Ai fini della valutazione dell'inevitabilità di tale errore di diritto, e cioè del processo di formazione della volontà dell’imputato, bisogna tenere conto tanto di fattori oggettivi che possono aver determinato l’ignoranza circa l’illiceità del proprio comportamento, quanto di dati soggettivi attinenti anche alle conoscenze e alle capacità dell’agente e ad eventuali condizionamenti culturali.

(Nel caso di specie l’imputata, cittadina nigeriana, aveva fatto sottoporre il proprio figlio, nato da poco, ad un intervento di circoncisione da parte di un soggetto non abilitato all’esercizio della professione medica e il neonato, poche ore dopo l’operazione, aveva subito una imponente emorragia, che ne ha richiesto il ricovero d’urgenza in ospedale. La Corte d’Appello aveva condannato l’imputata giudicandola colpevole di concorso nel reato di esercizio abusivo della professione medica, qualificando l’atto come “medico” e dunque da riservarsi a soggetti abilitati. Aveva sottolineato inoltre che l’imputata fosse stata mossa da motivazioni meramente culturali, in quanto la circoncisione rituale maschile non è un rito tipico della religione cattolica, professata dalla donna, bensì una tradizione della comunità di appartenenza: per tale ragione aveva escluso la scriminante dell’esercizio del diritto alla religione, e considerato irrilevante (ai sensi dell’art. 5 c.p.) l’eventuale errore o ignoranza circa la natura medica dell’atto, in quanto incidente sul precetto penale.
L’imputata ha presentato ricorso deducendo in particolare: 1) che la circoncisione rituale maschile non potesse considerarsi “atto medico” (non essendo rivolta alla cura e comunque essendo caratterizzata da grande semplicità) e 2) il difetto nell’imputata della consapevolezza di sottoporre il proprio figlio a un intervento di tipo medico e il suo errore circa i limiti entro cui le era consentita la pratica della circoncisione rituale.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendolo fondato e annullando senza rinvio la sentenza d’appello, perché “il fatto non costituiva reato”. Infatti, dopo un excursus sul significato simbolico della circoncisione rituale nella religione ebraica e la maggior problematicità di quella praticata da altre etnie (per la quale può astrattamente ipotizzarsi il reato di esercizio abusivo della professione medica), la Suprema Corte ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’imputata, in applicazione dei principi sopra enucleati e riconoscendo in particolare il difettoso raccordo determinatosi tra l’ordinamento giuridico italiano e una persona di origine africana, con un basso grado di cultura e non ancora integrata (circostanze che ne attenuano il dovere di informazione sulle norme penali), che peraltro ha immediatamente provveduto alle cure del bambino quando si è resa conto delle conseguenze dell’intervento.)