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Giurisprudenza in evidenza

Una raccolta, ordinata per anni, delle pronunce di maggior rilievo in materia di pluralismo

Rabczewska c. Polonia, N. 8257/13, Corte EDU (Prima Sezione),15 settembre 2022

Rabczewska c. Polonia, N. 8257/13, Corte EDU (Prima Sezione),15 settembre 2022

Nell’estate del 2019, fece scalpore in Polonia un’intervista resa dalla popstar Doda, una delle più note cantanti del panorama musicale nazionale.

 

L’artista, a fronte di domande circa la sua opinione sulla religione, motivate dal fatto che il fidanzato aveva, poco prima, pubblicamente dichiarato forti sentimenti antireligiosi, aveva risposto che credeva in un “potere superiore”, ma che al contempo era più convinta dalle scoperte scientifiche che non dalle “incredibili storie bibliche” scritte da “qualcuno che si è rovinato bevendo vino e fumando erba”.

Per questo, Rabczewska – questo il suo vero cognome – era stata condannata per blasfemia (art. 196 codice penale) a una multa di 5.000 zloty. Il Tribunale, infatti, aveva ritenuto le affermazioni della cantante deliberatamente offensive e veicolo di disprezzo per i credenti.

 

La Corte EDU ribalta però la decisione dei giudici nazionali, notando che le affermazioni erano state pronunciate con un linguaggio frivolo e colorito volto a suscitare l'interesse del giovane pubblico.

Doda non aveva affermato di essere un'esperta in materia, una giornalista o una storica. Aveva invece risposto alla domanda del giornalista sulla sua vita privata, rivolgendosi al pubblico con un linguaggio coerente con il suo stile di comunicazione, volutamente provocatorio, allo scopo proprio di attirare l’attenzione su di sé.

D’altra parte, secondo i giudici di Strasburgo, un gruppo religioso deve tollerare la negazione da parte di altri del proprio credo religioso e persino la propagazione da parte di altri di dottrine ostili alla propria fede, purché le dichiarazioni in questione non incitino all'odio o all'intolleranza religiosa.

 

In conclusione, la Corte ritiene che nel caso in esame i tribunali nazionali non abbiano valutato in modo esaustivo il contesto più ampio delle dichiarazioni della ricorrente e non abbiano attentamente bilanciato il suo diritto alla libertà di espressione con i diritti degli altri a vedere tutelati i propri sentimenti religiosi e a preservare la pace religiosa nella società. Non è stato dimostrato che l'ingerenza nel caso in esame fosse necessaria, in conformità con gli obblighi positivi dello Stato ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione, per garantire la pacifica coesistenza di gruppi e individui religiosi e non religiosi sotto la loro giurisdizione, assicurando un'atmosfera di tolleranza reciproca. Inoltre, la Corte ritiene che le espressioni in esame non costituissero un attacco improprio o abusivo a un oggetto di venerazione religiosa, in grado di incitare all'intolleranza religiosa o di violare lo spirito di tolleranza, che è una delle basi di una società democratica.

Nel complesso, i tribunali non hanno identificato e soppesato attentamente gli interessi in gioco, ossia il diritto alla libertà di espressione della donna e il diritto degli altri a vedere tutelati i propri sentimenti religiosi e a preservare la pace religiosa nella società.

La Corte ha rilevato insomma che i giudici nazionali, pur disponendo di un ampio margine di discrezionalità per decidere su questioni riguardanti gli interessi della società nel suo complesso, non avessero fornito ragioni sufficienti per giustificare la condanna della ricorrente e l'interferenza con la sua libertà di parola.

 

La sentenza si pone quindi in continuità con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia, sebbene non sia stata adottata all’unanimità, ma con il voto contrario di un giudice del Collegio (giudice Krzysztof Wojtyczek), il quale ha espresso anche una dissenting opinion.

 

(Commento a cura di Alessandro Negri)