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Giurisprudenza in evidenza

Una raccolta, ordinata per anni, delle pronunce di maggior rilievo in materia di pluralismo

L.F. c. S.C.R.L, Causa C- 344/20, CGUE (Seconda Sezione), 13 ottobre 2022

L.F. c. S.C.R.L, Causa C- 344/20, CGUE (Seconda Sezione), 13 ottobre 2022

La Corte di giustizia dell’Unione europea con sentenza del 13 ottobre 2022 si pronuncia nuovamente sull’abbigliamento con connotazione religiosa all’interno del luogo di lavoro.

 

Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia riguardante la mancata presa in considerazione della candidatura, presentata da una donna che indossava il velo islamico, per lo svolgimento di un tirocinio presso una società che gestisce appartamenti popolari. La candidata, infatti, durante il colloquio aveva apertamente dichiarato che non avrebbe tolto il velo sul luogo di lavoro, rifiutando di conformarsi alla politica di neutralità promossa dall’azienda. Per tale ragione non è stata presa in considerazione come tirocinante.

Dopo aver segnalato una discriminazione presso l’ente pubblico indipendente competente per la lotta contro la discriminazione, la donna presentava ricorso al Tribunal du travail Francophone di Bruxelles lamentando la mancata conclusione del contratto di tirocinio, asseritamente a causa di una discriminazione fondata sulla convinzione religiosa e domandava l’accertamento della violazione delle disposizioni della legge generale contro la discriminazione da parte della società che non l’aveva assunta. A fronte della giurisprudenza europea sul tema, il Tribunale belga dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea chiedendo se i termini «la religione o le convinzioni personali» presenti nella direttiva 2000/78 del Consiglio del 27 novembre 2000, riguardante la parità di trattamento in materia di impiego e di condizioni di lavoro, debbano essere interpretati come due aspetti di uno stesso criterio protetto o, al contrario, come due criteri distinti. Il Tribunale, inoltre, chiede alla Corte di Giustizia se il divieto di portare un segno o un indumento connotato, contenuto nel regolamento della società, costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione.

 

La Corte di Giustizia chiarisce anzitutto che l’espressione «la religione o le convinzioni personali» contenute nella Direttiva citata costituisce un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali.

I Giudici dell’Unione Europea sottolineano, poi, come le disposizioni della direttiva 2000/78 devono essere interpretate nel senso che il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile relativo alle convinzioni politiche, ideologiche ovvero religiose, derivante da una norma (interna) di un’impresa privata, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali nei confronti dei lavoratori che seguono regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi, purché tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata. In altri termini, l’inibizione dei simboli religiosi sul luogo di lavoro è possibile se ciò non comporta una diversità di trattamento tra gli appartenenti a fedi o credo diversi.

La Corte di Giustizia ha sottolineato come una norma interna possa (potenzialmente) configurare una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali qualora venga dimostrato dai giudici di merito nazionali che l’obbligo, apparentemente neutro, comporti uno svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione (o ideologia). Richiamando i propri precedenti giurisprudenziali, i giudici di Lussemburgo hanno, però, chiarito che tale differenza di trattamento non costituirebbe una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento fossero appropriati e necessari. La volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima solo se corrisponde ad un’esigenza reale del datore di lavoro, che spetta a quest’ultimo dimostrare.

 

(a cura di Alessandro Cupri)