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Focus

Uno sguardo d’insieme su alcune tematiche di specifico interesse per il pluralismo

Una de-radicalizzazione laica in un ordinamento pluralista

Una de-radicalizzazione laica in un ordinamento pluralista

Il tema del rapporto tra libertà religiosa e sicurezza ha acquisito negli ultimi vent'anni una tale centralità da far entrare nel dibattito pubblico e giuridico concetti fino ad allora sconosciuti o poco utilizzati. Tra questi spicca il più concreto e importante intervento pubblico a lungo termine nella lotta all'estremismo di matrice religiosa, ovvero la deradicalizzazione, spesso semplicisticamente intesa come l'opposto, o il contrario, di un processo di radicalizzazione.

L'attività di de-radicalizzazione, quindi, va prima definita nella sua accezione teorica per coglierne il reale significato e gli obiettivi; poi, è necessario individuarne il contenuto nella pratica, cercando di comprenderne i temi fondanti e i limiti. Il rischio di un simile intervento pubblico è quello di interferire con la sfera più profonda dell'individuo, con la sua religiosità e le sue intenzioni, oltrepassando i limiti derivanti dai diversi tipi di laicità (come laicità italiana o laïcité francese) che caratterizzano lo Stato, imponendogli di considerare la coscienza individuale come un territorio invalicabile.

 

Superare la superficialità di chi intende la de-radicalizzazione, semplicemente, come il contrario della radicalizzazione, implica anzitutto ripartire dal concetto di rieducazione. Senza soffermarsi su tutti i possibili sinonimi di rieducazione, dall'analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana emerge infatti che, a prescindere dalla variante lessicale utilizzata, la funzione rieducativa si sostanzia in tutti quegli interventi volti a favorire il recupero del detenuto a una vita in società. Il concetto di rieducazione sposato dal sistema, quindi, non è statico, volto a fornire passivamente contenuti all'individuo, ma dinamico. Ciò significa qualcosa di molto più complesso, direttamente legato alla sfera relazionale del soggetto: il percorso educativo che gli verrà offerto dovrà essere orientato a una cittadinanza effettiva. Nel sistema penitenziario italiano, dunque, il reinserimento può essere considerato l'obiettivo finale del percorso rieducativo, il vero traguardo a cui le istituzioni civili aspirano, in assenza di qualsiasi intento di ravvedimento morale. In modo non dissimile, quindi, il reinserimento dei radicalizzati in una nuova e pacifica socialità deve essere il fine ultimo di un piano di de-radicalizzazione.

 

In questo senso, la de-radicalizzazione non può equivalere a sradicare le convinzioni più profonde dell'individuo, per quanto riprovevoli e deplorevoli siano ritenute dalle istituzioni laiche; piuttosto, ciò a cui lo Stato può aspirare è il disimpegno dell'individuo dall'azione criminale, anche se motivato dal mero timore di una nuova sanzione, piuttosto che da una forte adesione ai valori che stanno alla base della convivenza sociale e dell'ordine che la regola.

Questo porta a un successivo, duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo, si fa qui riferimento a quanto emerge anche da un'esegesi letterale del dettato costituzionale dell'articolo 27, terzo comma, della Costituzione. La norma richiede infatti, con felice scelta lessicale, che le pene "mirino" alla rieducazione del condannato e non che debbano necessariamente raggiungerla o, tanto meno, imporla. Il progetto rieducativo, inevitabilmente portatore di valori, viene così offerto dall'ordinamento solo al condannato, che tuttavia conserva la piena libertà di decidere se accettare in tutto o in parte la mano tesa dello Stato o, purtroppo, se rifiutarla. Un'ambizione così alta come quella del reinserimento sociale dell'individuo richiede effettivamente un impegno condiviso per un progetto di giustizia basato sul ripristino e la ricostruzione del legame sociale, ma questo non si traduce in un obbligo da parte dell'individuo di aderire al programma terapeutico. L'imposizione di un tale dovere, che implica uno sforzo solo minimamente materiale, gravando piuttosto sulla sfera interiore dell'individuo, sembra lontana dai concetti di rieducazione e di rispetto della dignità umana. Il consenso a un progetto rieducativo, infatti, implica una vera e propria scelta di coscienza e fa parte, di conseguenza, di quello spazio interiore individuale in cui ogni interferenza del diritto segna un arretramento della libertà. condotto negli ordinamenti democratici, personalisti e pluralisti non può essere considerato libero o, più correttamente, essere liberamente aderito dal soggetto verso il quale è diretto.

 

In secondo luogo, qualsiasi trattamento rieducativo dovrà necessariamente seguire la strada dell'individualizzazione.

Non si tratta solo di un'ulteriore conseguenza dell'influenza decisiva, nell'ordinamento italiano, dei principi personalisti e pluralisti che valorizzano le specificità di ogni persona nella varietà delle infinite forme con cui si sviluppa la personalità individuale. In particolare, la necessità di adattare l'intervento riabilitativo del condannato alla sua specifica condizione è espressamente delineata anche dalla legge sull'ordinamento penitenziario nel suo primo articolo. Occorre quindi delineare un programma rieducativo adeguato alle esigenze del radicalizzato, che si collochi a metà strada tra un utopico, seppur affascinante, piano e modello integralmente personalizzato e, dall'altra parte, un programma generalizzato, privo di qualsiasi considerazione delle specificità dell'individuo.

Quindi, per de-radicalizzazione non si deve intendere nient'altro che ciò che l'ordinamento giuridico desidera che significhi: una rieducazione attagliata alle esigenze dell'individuo, in questo caso un soggetto ritenuto radicalizzato.

 

Venendo ai contenuti di un piano di de-radicalizzazione laica, partecipare a un progetto così ambizioso come quello della risocializzazione di un individuo, per di più nella sua declinazione di radicalizzato, significa illustrare alla persona i pilastri ideali che l'ordinamento giuridico ha posto a fondamento della convivenza tra concittadini e ai quali è richiesta un'adesione minima, anche se esclusivamente sul piano fattuale e relazionale e non su quello della coscienza interiore e individuale. Ciò che va chiarito è che laddove lo Stato è tenuto a rinunciare a qualsiasi affermazione di verità assoluta, fondata o meno su basi religiose, all'individuo non può essere ovviamente preclusa la possibilità di abbracciarne una. Inoltre, la commistione operata dai radicalizzati, per cui il messaggio religioso assume anche una natura politica fino a perdere i suoi connotati originari, sarebbe intollerabile se attuata dalle istituzioni civili, qualora pretendessero di imprimere una valenza religiosa, o anche solo spirituale, alla loro attività politica, ma lo stesso non vale per gli individui. Infatti, il principio della distinzione degli ordini - e più in generale quello della laicità, di cui il primo è il nucleo essenziale - non richiede che i semplici cittadini, così come i poteri pubblici, mantengano rigidamente separate la sfera civile e quella spirituale.

 

Tuttavia, ciò non significa che le istituzioni civili siano destinate ad attuare una strategia di de-radicalizzazione necessariamente inefficace. Il canone di neutralità che contraddistingue lo Stato laico non gli impedisce infatti di attribuire rilevanza ai valori etici, razionalmente fondati, senza evocare l'idea di un ordine che imponga oppressivamente il suo portato assiologico. Una volta sanciti dalla Costituzione, quei valori assumono anche rilievo giuridico sotto forma di principi, dando forma a un'etica pubblica alimentata da quell'indiscutibile patrimonio di valori. Con tale nozione non si identifica un'etica specifica, sia essa religiosa, laica o collettiva, ma una "meta-etica" generale e vincolante, il cui fine ultimo è quello di garantire la pacifica coesistenza di altre etiche all'interno della sua cornice. Questo porta inevitabilmente ad affermare che anche l'ordine più liberale si basa su un proprio insieme di valori, da cui è diventato necessario attingere per produrre una proposta di contenuti per un piano di de-radicalizzazione.

 

Più concretamente, un programma di de-radicalizzazione dovrà illustrare, innanzitutto, all'individuo a cui si rivolge che ognuno è pienamente libero, all'interno di un ordinamento giuridico laico, di professare il proprio credo, essendogli assicurato in tale ambito uno spazio libero da interferenze pubbliche e private. Infatti, il merito primario della laicità consiste nella sua "assidua preoccupazione di dare a ciascuno il modo di essere se stesso" (Bellini): a ogni consociato, quindi, anche se radicalizzato da una matrice religiosa o politica.

Sopra ogni cosa, il tema a cui va data una rinnovata centralità è quello della responsabilità.  Infatti, l'idea che l'esercizio concreto delle libertà garantite possa essere contrastato da limiti legati alla necessaria partecipazione sociale del cittadino rivela il ruolo che il sistema attribuisce alla responsabilità percepita di un individuo nei confronti di un altro. Il rapporto tra libertà e responsabilità è quindi concepibile in modo circolare, esattamente come nella dialettica tra diritti e doveri: l'esercizio di un diritto inviolabile comporta sempre l'assunzione di un dovere verso la collettività, così come "ogni libertà è il fondamento della responsabilità" (Pizzolato).

Insistere sulla responsabilità, quindi, non significa solo puntare a far comprendere i fondamenti solidali della convivenza civile disegnati dall'ordinamento giuridico, ma anche sensibilizzare a un legame che si ritiene essenziale per la realizzazione di quel minimo di coesione che costituisce la necessaria compensazione delle spinte centrifughe proprie del pluralismo.

 

Il riferimento alla responsabilità è valido ai nostri fini per due aspetti. In primo luogo, in quanto un piano di de-radicalizzazione non può non prevedere un riferimento alle sanzioni cui un individuo può essere sottoposto in caso di comportamenti lesivi di beni giuridici fondamentali altrui, come la vita o l'incolumità fisica. Tale riferimento, tuttavia, potrebbe non essere sufficiente.  Si tratta di una visione non solo eccessivamente cinica, che considera l'uomo incapace di autoregolarsi in assenza di una prospettiva di ritorsione, ma soprattutto miope, che trascura l'essenzialità, nel nostro ordinamento, del principio di solidarietà. A proposito di quest'ultimo, ci viene ricordata la sua natura di tessuto connettivo delle relazioni tra gli individui, posto alla base della convivenza sociale prefigurata dalla Carta costituzionale. Una volta accertato che l'obiettivo di una strategia rieducativa è innanzitutto il disimpegno dell'individuo dall'azione criminale, si può anche scegliere di perseguire tale obiettivo attraverso la sola intimidazione, ma in questo modo si tradirebbe l'autentico spirito solidaristico che ha animato il progetto costituente, che evidentemente richiede qualcosa di più.

 

In questo contesto, assume ulteriore significato un secondo aspetto legato al nuovo e, qui, auspicato ruolo assegnato al tema della responsabilità in un progetto di de-radicalizzazione. In questa direzione, il cuore dell'attività rieducativa - o "de-radicalizzante" che dir si voglia - potrebbe giustamente consistere in questo aspetto: se la persona radicalizzata non è in grado di alimentare il rispetto, la solidarietà o la compassione verso l'altro, poiché nega a quest'ultimo la sua umanità e, in ultima analisi, la sua dignità, occorre proporre una visione diversa. Una visione centrata sul rispetto della pari dignità e dei vincoli solidaristici imposti dall'ordinamento giuridico in cambio del riconoscimento di diritti inviolabili, che potrebbe davvero garantire, qualora fosse adottata dal radicalizzato, una rinnovata astensione dall'attività criminale motivata dalla sua religiosità. Si tratterebbe di un'azione pubblica che, nel pieno rispetto del principio di laicità, non intende in alcun modo alterare la religiosità individuale, che potrebbe benissimo rimanere mescolata a elementi politici e persino totalitari. Si tratterebbe, invece, di un tentativo laico di de-radicalizzazione che, insieme alle ricadute della violazione di una norma dello Stato, mostrerebbe al radicalizzato non solo le conseguenze legali delle sue azioni, ma anche cosa significa far parte di un patto sociale regolato dalla nostra Costituzione, in cui il ponte tra le libertà garantite e le responsabilità richieste è costituito proprio dal valore della dignità umana.

 

(Focus a cura di Alessandro Negri

 

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