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Focus

Uno sguardo d’insieme su alcune tematiche di specifico interesse per il pluralismo

La sterilizzazione forzata delle donne Rom: violazioni della CEDU e risvolti penali

La sterilizzazione forzata delle donne Rom:  violazioni della CEDU e risvolti penali

Il presente Focus offre spunti di esame del fenomeno delle cosiddette sterilizzazioni forzate ai danni di donne di etnia Rom. Le procedure di sterilizzazione forzata sono state al centro di casi internazionali riguardanti alcuni Paesi dell’Europa orientale, in particolare la Slovacchia, nonché oggetto di indagini di organismi non governativi, tra cui il rapporto Body and Soul del Center for Reproductive Rights e del Poradňa pre občianske a ľudské práva. Questo Focus presenta alcuni casi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) e della Corte interamericana dei diritti umani, accompagnati da alcuni degli strumenti interpretativi internazionali che condannano la sterilizzazione forzata come forma di violenza di genere e di trattamento inumano e degradante. Alla fine del contributo, una bibliografia essenziale introduce all’approfondimento del tema proponendo diverse letture di stampo accademico, istituzionale ed attivista.

 

La pratica della sterilizzazione forzata è un fenomeno di rilevanza penale, nonché una grave violazione dei diritti e delle libertà riproduttive delle donne, che si materializza in una forma di discriminazione etnica e di genere, dal momento che colpisce in modo sistematico donne di etnia Rom. La Corte EDU si è occupata di tale pratica in tre casi molto simili tra loro, decisi tra il 2011 ed il 2012, nei quali le vittime hanno fatto ricorso contro la Slovacchia lamentando la violazione di molteplici norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Si tratta di V.C. c. Slovacchia, N.B. c. Slovacchia ed I.G. e altri c. Slovacchia.

 

I tre casi sono avvenuti in contesti analoghi. Le donne sono state, infatti, sterilizzate dal personale medico sanitario in occasione di parti cesarei, mentre erano ricoverate presso ospedali pubblici, in assenza di consenso informato e di una imminente necessità medica della procedura. Perfettamente sovrapponibile è stato il modus operandi. Le vittime erano state avvisate delle complicanze emerse durante il parto e dei gravi rischi che avrebbero corso in occasione di eventuali successive gravidanze, mentre, in fase di travaglio, si trovavano doloranti in posizione supina, oppure dopo aver ricevuto una premedicazione con effetto sedativo e ansiolitico. In un secondo tempo, erano state indotte a firmare un documento dattiloscritto, senza avere la possibilità di leggerne il contenuto. In un caso, un medico aveva afferrato la mano di una minore per aiutarla a firmare, mentre la madre della stessa non era stata messa al corrente della supposta necessità della sterilizzazione. Nei tre casi, il documento conteneva la richiesta di sterilizzazione da parte delle donne, alla luce delle (presunte) informazioni ricevute circa l’irreversibilità della procedura. In uno dei tre casi decisi dalla Corte EDU, invece, tre donne erano state sterilizzate durante il parto a loro insaputa, venendo indotte ex post a firmare un documento di cui ignoravano il contenuto e scoprendo soltanto successivamente che lo stesso riguardava la sterilizzazione cui erano già state sottoposte.

 

Innanzi alla Corte di Strasburgo, le ricorrenti avevano lamentato la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 CEDU), del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 CEDU), del diritto al matrimonio (articolo 12 CEDU) e del divieto di discriminazione (articolo 14 CEDU). La Corte, tuttavia, ha ritenuto sussistenti soltanto le prime due violazioni. In primo luogo, secondo la Corte, la sterilizzazione nell’ambito di un parto cesareo raggiunge un livello di gravità tale da potersi qualificare come degradante ai sensi dell’articolo 3, considerati la natura e le circostanze concrete dell’intervento, nonchè il sentimento di umiliazione e svilimento della vittima, ritenuta vulnerabile in quanto appartenente ad una minoranza etnica. In secondo luogo, la Corte ha identificato nell’assenza di garanzie a tutela della salute riproduttiva di una donna Rom l’inadempimento della Slovacchia dell’obbligo di protezione del diritto al rispetto della vita privata e familiare ai sensi dell’articolo 8. La Corte EDU non ha, dunque, ritenuto di dover esaminare separatamente se i fatti avessero determinato anche una violazione del diritto a sposarsi e avere una famiglia di cui all’articolo 12. Quanto, invece, alla supposta violazione del divieto di discriminazione, di cui si discuterà di seguito, la Corte ha sostenuto l’assenza di una sistematicità della pratica in esame, da considerarsi singolarmente alla luce del solo articolo 8, senza farla rientrare nell’alveo dell’articolo 14. In questo senso, la decisione si è fondata sull’assenza di prove idonee a dimostrare che i medici avessero agito in malafede con l’intenzione di maltrattare le donne e, di conseguenza, sull’impossibilità di ravvisare una politica discriminatoria strutturale motivata da pregiudizi razziali o etnici.

 

La pratica delle sterilizzazioni forzate ha indubbia rilevanza penale, tanto che già all’epoca dei fatti in questione la stessa era condannata come forma di violenza contro le donne da diverse fonti interpretative internazionali, tra cui, per esempio, la Raccomandazione generale n. 24 del Comitato per l'eliminazione della discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite (CEDAW) del 1999. Nel 2011, inoltre, il divieto di sterilizzazione è stato inserito all’interno della Convenzione di Istanbul, che ne ha imposto la criminalizzazione all’articolo 39. La Slovacchia, tuttavia, ha firmato, ma non ratificato la Convenzione. È, invece, parte dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998, che include espressamente la sterilizzazione forzata tra gli atti che possono costituire crimini contro l'umanità e crimini di guerra (articoli 7 e 8). La pratica può, inoltre, farsi rientrare in via interpretativa anche tra gli atti costituenti genocidio ai sensi dell’articolo 6, che riflette la definizione di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio del 1948 (articolo 2).

 

Va precisato, peraltro, che l’obbligo di criminalizzazione della sterilizzazione forzata previsto dalla Convenzione di Istanbul è da intendersi come obbligo generico di persecuzione penale del fenomeno, non richiedendo la norma l’introduzione di un reato ad hoc laddove la pratica in esame sia comunque riconducibile ad altre ipotesi di reato, come, per esempio, le lesioni. Tuttavia, è bene rimarcare l’utilità dell’introduzione di un reato specifico in quegli ordinamenti in cui il fenomeno è maggiormente diffuso, anche ai fini di un orientamento culturale nel senso della protezione del bene giuridico della libertà riproduttiva. Diversamente, l’assenza di una normativa specifica rischia di privare di una tutela penale i diritti riproduttivi delle donne sottoposte a sterilizzazione forzata, risultando sanzionata unicamente la lesione dell’integrità fisica. Inoltre, a livello di tutela processuale, reprimere la pratica della sterilizzazione unicamente tramite l’applicazione di una fattispecie come quella delle lesioni ha delle implicazioni considerevoli, in particolare per quanto concerne la determinazione del dolo.

 

Ne sono un esempio due dei tre casi giunti all’attenzione della Corte di Strasburgo, in cui le vittime avevano sporto denuncia, ma il procedimento penale si era concluso con l’archiviazione. I pubblici ministeri, pur riconoscendo che le donne non avevano prestato il loro consenso alla pratica, avevano escluso la sussistenza di un reato, ritenendo che i* medic* avessero agito in buona fede. Altr* giudici slovacch* si erano basat* su questa stessa motivazione nell’archiviare un’indagine penale sulla sterilizzazione di diverse donne Rom, che era stata avviata a seguito della pubblicazione del succitato rapporto Body and Soul. In Slovacchia, misure specifiche volte a eliminare le carenze legislative in materia di sterilizzazione e a garantire il rispetto delle relative norme internazionali sono state introdotte solo dopo i casi in questione, con l’emanazione della Legge sull'assistenza sanitaria del 2004, entrata in vigore l’1 gennaio 2005. Sorte parzialmente differente ha avuto, mutatis mutandis, il caso I.V. c. Bolivia della Corte interamericana dei diritti umani, riguardante una donna peruviana sottoposta a sterilizzazione forzata in Bolivia, dove il medico responsabile della sterilizzazione era stato condannato per lesioni colpose in primo grado, ma il processo si era protratto fino alla prescrizione.

 

Come dimostra la precedente analisi, la dimensione domestica del diritto penale e gli obblighi internazionali in materia di violenza contro le donne sono due facce della stessa medaglia: la promozione, il rispetto e la protezione dei diritti umani. La rimanente parte di questo Focus mette in luce alcuni aspetti cruciali che connotano la sterilizzazione forzata come violazione dei diritti umani. Come ormai consolidato nelle fonti internazionali, la violenza di genere costituisce una forma di discriminazione contro le donne. In particolare, la violenza perpetrata attraverso la sterilizzazione forzata colpisce un soggetto specifico, in virtù non solo del suo genere, ma anche della sua appartenenza etnica, ossia la donna Rom. Genere ed etnia come marcatori sociali si fondono e confondono tra i moventi di un atto dalla matrice discriminatoria multipla. L’analisi intersezionale della pratica in questione mette in luce come bersaglio della condotta violenta e discriminatoria l’interazione di diversi fattori - genere ed etnia - difficilmente separabili ai fini della definizione del motivo alla base della condotta, poiché intimamente collegati tra loro.

 

Non è questo, però, l’approccio seguito dalla Corte EDU, che non discute i casi né da una prospettiva intersezionale, né, come criticato dal giudice Mijovic nella sua opinione dissenziente contenuta in V.C. c. Slovacchia, discriminatoria. La via intrapresa da Strasburgo è diversa da quella dell’articolo 14 (divieto di discriminazione). La Corte, oltre a basarsi sull’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti), fonda, infatti, il suo ragionamento sul diritto alla vita privata ex articolo 8 nelle tre sentenze V.C. c. Slovacchia, N.B. c. Slovacchia ed I.G. e altri c. Slovacchia, riscontrando il fallimento da parte dell’ordinamento slovacco a garantire salvaguardie giuridiche effettive e sufficienti a proteggere il diritto alla salute riproduttiva, in particolare delle donne di origini Rom. Tuttavia, per quanto l’applicabilità dell’articolo 8 al caso di specie rimanga fuori da ogni dubbio, alcuni elementi avrebbero potuto indirizzare la Corte EDU ad esaminare separatamente le circostanze anche alla luce del divieto di discriminazione di cui all’articolo 14, tra cui il carattere sistematico dell’archiviazione dei procedimenti penali e le lacune legislative persistenti nell’ordinamento slovacco. Infine, nell’ottica della (non) applicabilità dell’articolo 14, la Corte ha attribuito minore peso agli effetti dannosi arrecati dalla sterilizzazione rispetto alla buona fede de* medic*, diversamente da quanto affermato dalla stessa Corte EDU in D.H. e Altri c. Repubblica Ceca, dove l’intenzione non era stata considerata elemento distintivo della discriminazione (v. paragrafi 175-181).

 

In conclusione, la sterilizzazione forzata e, in particolare, la sterilizzazione forzata delle donne Rom è pratica contraria ai diritti umani. Nonostante una prospettiva discriminatoria ed intersezionale avrebbe contribuito a cogliere ulteriori aspetti cruciali della violazione, le sentenze della Corte EDU che condannano la sterilizzazione forzata inflitta alle donne Rom sono un riferimento essenziale nella protezione dei diritti in ambito riproduttivo e nel divieto di trattamenti inumani e degradanti.

 

(Focus a cura di Giovanna Gilleri e Giordana Pepè)

 

Giurisprudenza correlata

 

A.S. c. Ungheria, Comunicazione N. 4/2004, Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, 29 agosto 2006

 

D.H. e altri c. Repubblica Ceca, N. 57325/00, Corte EDU (Grande Camera), 13 novembre 2007

 

I.G. e altri c. Slovacchia, N. 15966/04, Corte EDU (Ex Quarta Sezione), 13 novembre 2012

 

I.V. c. Bolivia, Series C No. 329, Corte interamericana dei diritti umani, 30 novembre 2016

 

N.B. c. Slovacchia, N. 29518/10, Corte EDU (Ex Quarta Sezione), 12 giugno 2012

 

V.C. c. Slovacchia, N. 18968/07, Corte EDU (Ex Quarta Sezione), 8 novembre 2011

 

Opinione dissenziente del Giudice Mijovic nel caso V.C. c. Slovacchia, N. 18968/07, Corte EDU (Ex Quarta Sezione), 8 novembre 2011

 

Strumenti e documenti internazionali correlati

 

Commissione africana dei diritti umani e dei popoli, Commento generale N. 4 sulla Carta africana dei diritti umani e dei popoli: il diritto al rimedio giuridico per le vittime di tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (articolo 5), 2017

 

Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), Raccomandazione generale N. 19: Violenza contro le donne, 1992, HRI/GEN/1/Rev.9 Vol. II 

 

Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), ‘Raccomandazione generale N. 24: Articolo 12 della Convenzione (donne e salute)’, 1999, HRI/GEN/1/Rev.9, Vol. II

 

Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Convenzione sul genocidio, 9 dicembre 1948

 

Consiglio d’Europa, Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011, articolo 39

 

Statuto di Roma della Corte penale internazionale, 17 luglio 1998, articoli 6, 8

 

Bibliografia essenziale

 

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